Psicologia giuridica
In quest’articolo si parla di psicologia giuridica e di alcuni errori in cui possono incorrere gli psicologi quando si occupano di valutazioni tecniche nei casi di separazione e divorzio, affido e adozione e valutazione del danno psicologico
La psicologia per essere una disciplina scientificamente valida, deve fondarsi su teorie scientifiche e distinguersi dalle teorie di senso comune. Perciò è importante per lo psicologo (non solo in ambito giuridico) evitare l’uso di giudizi di valore, giudizi personali, giudizi morali ed alcuni errori logici nei ragionamenti.
La psicologia giuridica è una parte della psicologia che si interfaccia con il diritto quando è necessario un confronto e una collaborazione tra competenze differenti in relazione ad un utente comune, cioè una o più persone sottoposte ad indagini disposte dal giudice.
Lo psicologo giuridico opera nel contesto del diritto che, attraverso il sistema normativo, definisce il suo ruolo e i suoi compiti.
La psicologia giuridica utilizza le teorie, i paradigmi, i metodi e gli strumenti propri della psicologia e da questa riceve anche alcune lacune scientifiche e alcuni aspetti critici propri della disciplina psicologica.
Nell’esercizio delle sue funzioni un giudice può richiedere un parere tecnico che gli chiarisca uno o più aspetti contribuendo alla decisione che deve rendere nel procedimento.
L’oggetto degli accertamenti richiesti al consulente psicologo è riconducibile alla valutazione dell’azione umana, che è un comune ambito di interesse tra la psicologia e il diritto. Ad esempio, un giudice può richiedere di valutare la “capacità di intendere e volere”, in caso di omicidio, oppure la “capacità genitoriale” per disporre l’affido di minorenni in una separazione o divorzio o in un procedimento di adozione.
I quesiti del giudice utilizzano linguaggi e termini derivanti dall’ambito legale o dal senso comune come “motivazione”, “personalità patologica”, “risorse”, “competenze”, parole che possono apparire chiare dal punto di vista del significato comune, meno sotto quello del profilo scientifico.
Le “capacità genitoriali” o le “competenze materne” sono da considerare come concetti che derivano dall’uso di teorie e modelli scientificamente fondati in quanto oggetti osservabili, misurabili e quantificabili?
Il senso comune risponderebbe affermativamente a questo interrogativo di natura epistemologica, trasformando categorie giuridiche in eventi naturali e dunque oggettivando qualcosa che per sua natura non è apprezzabili in termini discreti e misurabili.
Un tale procedimento conoscitivo è spesso usato anche dagli psicologi, dimenticando che la psicologia, rispetto alle discipline che si occupano dello studio di corpi fisici (come la chimica), si trova di fronte ad oggetti di studio che non hanno caratteristiche fisiche e chimiche, se non appunto in termini metaforici.
La psicologia studia fenomeni che appartengono ad un livello di realtà differente da quello della fisica classica o della chimica. La psicologia si occupa di “oggetti” che non hanno consistenza fisica, come ad esempio la “mente”, ma i cui significati hanno delle conseguenze reali e concrete.
Pertanto è necessario definire scientificamente i costrutti utilizzati nell’indagine di cui si è chiamati a rispondere, cioè definire di cosa si sta parlando, dato che il giudice richiede la consulenza dello psicologo per valutare secondo criteri scientifici e non secondo teorie di senso comune.
Gli psicologi che operano in questo settore devono tenere ben presente questo aspetto critico e fare appello a tutta la loro competenza a distinguere tra significati di senso comune e definizioni di senso scientifico.
Perdere di vista questo aspetto simbolico del linguaggio, vuol dire rischiare di dare consistenza a concetti che esistono solo in virtù delle teorie di senso comune che li definiscono.
Pertanto è necessario esplicitare le teorie e i presupposti sui quali si fondano i metodi e le considerazioni rispetto agli “oggetti” da valutare.
Allo psicologo giuridico è richiesto allora di tenere presente questi aspetti critici che possono generare alcuni errori nella loro attività di consulente o di perito.
Il termine “errore” rimanda al concetto di divergenza rispetto ad un obiettivo stabilito.
Se l’obiettivo è quello di fornire una valutazione tecnica e oggettiva, non può essere lasciato spazio alle distorsioni di giudizio dovute all’uso di criteri personali o di giudizi morali e di valore, oppure dovuti all’uso di ragionamenti che non seguono il procedimento logico che dalle premesse porta alle conclusioni.
Di seguito verranno elencati alcuni errori riscontrabili nelle valutazioni tecniche, riconducibili a tre grandi aree:
- area delle distorsioni nell’attribuzione della causalità: errori che si commettono quando si cercano le cause e le responsabilità di un comportamento, senza valutare le intenzioni della persona e il contesto;
- area degli errori inferenziali: dovute all’uso di strategie cognitive che possono portare ad errori nel ragionamento logico di tipo inferenziale;
- uso di concetti di senso comune e allontanamento dal senso scientifico: quando non sono rispettati i criteri che permettono alla psicologia di generare discorsi di tipo scientifico, come la coerenza tra i presupposti teorici, gli strumenti utilizzati e la definizione dell’oggetto di indagine (ad esempio, quando un concetto viene trattato e misurato come se fosse un oggetto empirico realmente esistente).
Vediamo in dettaglio gli errori:
Errore fondamentale di attribuzione
I comportamenti o le intenzioni di una persona vengono spiegati attraverso presunte caratteristiche di personalità o attraverso particolari tratti patologici.
Questa spiegazione può essere integrata dalla previsione di costanza quando si ritiene che un soggetto, sulla base della sua patologia o di un tratto della sua personalità, agirà ancora come ha già fatto in passato. Si arriva ad affermare che, dato che “l’ha già fatto, lo rifarà”.
Ne abbiamo innumerevoli esempi negli articoli e nei servizi giornalistici relativi a fatti di cronaca nera.
Tautologia
Si spiega un comportamento attraverso una classificazione psichiatrica, per poi attribuire alla stessa etichetta diagnostica la capacità di spiegare il comportamento stesso. La descrizione di un comportamento diventa la sua stessa causa.
Attribuzione della vittima
Quando la vittima viene ritenuta responsabile per ciò che le è accaduto e si afferma che “se la sia cercata”.
I discorsi di senso comune prodotti nell’ambito della violenza di genere spesso utilizzano tale argomentazione.
Correlazione illusoria
Viene individuata una relazione di causalità lineare tra variabili che non hanno nessun rapporto di causa – effetto ma sono correlate in modo casuale, ad esempio eventi negativi della storia personale e comportamenti delittuosi o devianti. Si parla allora di “humus familiare negativo”, “figure genitoriali deteriorate”, “eventi traumatici” ai quali si tenta di attribuire le spiegazioni del comportamento o di caratteristiche personali.
Oppure si attribuiscono i comportamenti devianti di un figlio ai comportamenti devianti di un genitore. È una prassi derivante da una certa psichiatria e psicologia, che spiega le azioni e i modi di essere di oggi con il passato. Così facendo è possibile rintracciare la criminogenesi in una tragica serie di sventure familiari e/o affettive, di rifiuti, di abbandoni, di ricoveri, di contatto con istituzioni sociali o penitenziarie, di drammi di varia natura.
Un’altra variante è quando la causalità può essere confusa con la contiguità, quando è attribuito un rapporto di causa – effetto tra due eventi, unicamente sulla base della loro successione temporale.
Uso di criteri di valutazione personali
Quando si valuta l’attendibilità delle affermazioni fatte da qualcuno, sulla base dell’affidabilità attribuita ad esse dal valutatore secondo criteri personali o riferendosi alla personale esperienza e conoscenza del mondo.
Uso di prototipi, stereotipi e intuizioni
Quando un giudizio viene formulato basandosi su descrizioni prototipiche e su stereotipi, senza approfondire il livello di analisi. Oppure vengono fornite interpretazioni sulla base di intuizioni personali, ovvero i fatti e i dati sono interpretati senza dare riferimento ad un metodo o a statistiche o a teorie scientificamente validate.
Reificazione e letteralizzazione
Analogie, similitudini, metafore, spesso utilizzate per descrivere le persone e le loro azioni, perdono il loro valore letterale e vengono trasformate in variabili empiriche e vengono trattate come realtà fattuali. Si parla allora di “mostri”, “bestiale brutalità”, “glaciale freddezza”
Confusione tra giudizi di valore e dati di fatto
Quando una valutazione basata su un sistema di valori o sul senso comune viene presentata come se fosse una valutazione oggettiva. Se il dato di fatto è un dato oggettivo e condivisibile, il giudizio di valore è un’affermazione che non descrive una realtà oggettiva, ma la valuta oggettivamente.
Giudizi morali trasformati in categorie psicopatologiche
Quando l’illecito morale e la trasgressione di norme sociali sono trasformati in etichette diagnostiche che spiegano il comportamento deviante, ma non necessariamente psicopatologico.
Considerare le regole sociali come leggi naturali
Quando la violazione di regole sociali – che hanno validità non universale e sono localmente e temporalmente limitate – viene considerata una violazione di norme naturali o biologiche e dunque attribuita a patologia psichiatrica del soggetto.
Interpretazioni presentate come spiegazioni
Quando una congettura viene confusa con la spiegazione, un’interpretazione personale dei fatti o delle azioni di una persona viene usata per spiegarne le intenzioni e le azioni stesse.
Tendenza all’autoconferma
Quando una considerazione venga usata per confermare un’ipotesi, anche in presenza di palese contraddizione, che viene sanata utilizzando complicate argomentazioni.
Verificazionismo
Tendenza a verificare le ipotesi, cercando i dati che le confermano e qualora i dati non confermino le ipotesi, siano scartati adducendo argomentazioni a sfavore della contraddizione.
Scivolamento tra livelli di realtà differenti
Quando un fenomeno complesso, come l’intenzione o le azioni umane, oppure i costrutti psicologici, vengono indagati e spiegati attraverso pratiche appartenenti alla medicina.
Bibliografia di riferimento
Psicologia clinica giuridica di Salvini A., Ravasio A. e Da Ros T., 2008, Giunti Editore S.p.a. Firenze.
Gli errori in ambito giuridico: uno studio su alcune relazioni peritali di Iuduci A. e Biagini V., pubblicato su Scienze dell’Interazione, vol.2 n. 3, 2010.
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