Quando il bambino non vuole mangiare
Far mangiare per forza oppure cambiare approccio?
“Mio figlio non mangia!”
Spesso vengo interpellato da genitori preoccupati per l’alimentazione dei loro figli in età pediatrica.
Mi raccontano dei tentativi infruttuosi di far mandar giù qualche boccone a bambini che non ne vogliono sapere di mangiare quello che viene loro proposto.
Le modalità di gestione dell’alimentazione utilizzate dai genitori non tengono conto della sincera volontà del bambino di non mangiare. Paradossalmente generano un circolo vizioso del tipo più ti obbligo a mangiare e più non mangi, con ricadute sul clima e sui rapporti familiari.
Può essere più utile adottare un principio basato sulle fasi dello sviluppo del bambino e sulla naturale tendenza ad approcciarsi al cibo tipica di ogni età evolutiva, che comunichi al bambino “non devi mangiare per forza”.
Questo messaggio, unito ad alcuni comportamenti che i genitori possono adottare cambiando abitudini, renderebbe meno difficile il momento del pasto.
Alcune delle strategie utilizzate dai genitori sono quelle di cercare di distrarre il bambino dall’attività primaria del mangiare inventandosi rituali (ad es. far vedere lo stesso cartone animato), oppure impegnarli in svariate attività di gioco o improvvisare spettacolini in cui il cibo diviene parte di una scenetta familiare nel tentativo di ficcare un cucchiaino di cibo in bocca al piccolo.
L’idea sottostante è quella che spostando l’attenzione del piccolo dal cibo, prima o poi aprirà la bocca e sarà possibile imboccarlo.
Altri genitori provano a fare leva sul premio e sulla punizione, a seconda che il bambino abbia mangiato oppure rifiutato il pasto preparato.
Nei casi più estremi ascolto il racconto di genitori che hanno ingaggiato vere e proprie battaglie per un boccone di cibo, magari dopo aver incorso il piccolo per tutta casa.
Il fattore comune di queste modalità di gestire il momento del pasto è quello di non considerare la volontà del bambino, che inequivocabilmente dice “non voglio mangiare”.
Quando una strategia non funziona nel tempo, è sempre opportuno cambiare il modo di agire, ad esempio, non forzare a mangiare i bambini attraverso i rituali distraenti, i premi, le punizioni o addirittura le costrizioni.
Considerando che anche i bambini più piccoli (6 – 9 mesi) comunicano le loro intenzioni e capiscono quelle degli adulti di riferimento, capiamo che le modalità sopra citate sono inefficaci.
Per questo motivo, la relazione e la comunicazione con il bambino al momento del pasto dovrebbe essere quanto più possibile orientata al messaggio “non devi mangiare per forza”.
Questo principio generale può far evitare l’instaurarsi di rapporti di forza tra genitori e figli con la relativa rabbia e frustrazione nel constatarne l’inefficacia.
A questo approccio comunicativo si possono associare una serie di comportamenti che i genitori possono attivare al momento del pranzo.
Innanzitutto bisogna tenere presente che i sensi del gusto e dell’olfatto, che veicolano il nostro approccio al cibo, cambiano dalla fase dello svezzamento fino all’adolescenza impegnando il bambino in un processo continuo di conoscenza e di cambiamento delle abitudini alimentari.
Dunque gli approcci e i tentativi di scoperta quali assaggi e sputi, le attività di manipolazione del cibo e i cambiamenti repentini nel gusto (“ma come, l’hai mangiato fino ad ieri?”) vanno considerati come modalità di conoscenza che i bambini attuano nei confronti del cibo.
Tutte queste attività, che sporcano i vestiti dei bambini e dei genitori oltre agli ambienti familiari, vengono di solito erroneamente definite “pasticci” o “capricci”.
Anche lo sviluppo della conoscenza alimentare va guidato dai genitori e le sperimentazioni infantili possono essere accompagnate dall’insegnamento delle sequenze di gesti necessarie per portare il boccone alla bocca correttamente, evitando di rimproverare il bambino per le trasgressioni e gli errori.
È un falso mito quello per cui i bambini facciano volutamente i dispetti per far arrabbiare i genitori, lo fanno semmai perché trovano divertente ciò che capita in conseguenza delle loro azioni, dunque se si vuole interrompere il divertimento, si deve cambiare la reazione.
Con i bambini più grandi (dai due anni in su), che dovrebbero aver smesso la fase “pasticciona” di sperimentazione, si assiste più nettamente al rifiuto del cibo.
Il principio del non forzare può essere sostituito dal principio della naturalezza a mangiare.
Dopo lo svezzamento, i bambini sono in grado di mangiare quasi tutto ciò che mangiano gli adulti e si può preparare un pasto (con i dovuti accorgimenti nei confronti dei piccoli) che mangeranno tutti i commensali seduti a tavola nello stesso momento.
In questo modo genitori e figli si dividono la responsabilità del momento del pasto.
I genitori decidono cosa (il pasto), quando (ad un orario il più possibile ricorrente e routinario) e dove (a tavola e non in giro per casa o sul divano).
In questo modo si solleva il bambino da decisioni che non sono di sua pertinenza perché attinenti al mondo degli adulti e delle regole relative al come avviene il pasto.
Al bambino resta da decidere se e quanto mangiare del pasto preparato.
Il pasto sarà comunque composto da cibi adeguati all’età e il gusto del piccolo, facendo trovare sulla tavola i cibi che già sappiamo piaceranno, in modo da lasciare spazio alla scelta (ad esempio, in un piatto unico di carne e patate, il bambino può scegliere di mangiare l’uno o l’altro ingrediente, oppure del formaggio, già presente in tavola), ma senza proporre alternative non presenti sulla tavola (“ti faccio i bastoncini di pesce?”, “come lo vuoi il panino?”).
È importante che anche gli adulti diano l’esempio e mangino gustando ciò c’è nel piatto, senza distrazioni di cellulari e televisori.
L’ideale, compatibilmente con le condizioni di vita e lavorative della famiglia, è che almeno uno dei genitori partecipi al pranzo contemporaneamente al bambino, mangiando la stessa pietanza.
La presenza del genitore che mangia la stessa pietanza del piccolo è un esempio molto più potente, invogliante e naturale di qualsiasi invito ad assaggiare “almeno un boccone”. Così si potrà evitare anche questa frase poco efficace.
Ancora più efficace è il coinvolgere il bambino nella preparazione del pasto, che stimola naturalmente la curiosità di assaggiarlo per “vedere com’è venuto”.
Se parliamo di naturalezza, allora anche premi e ricompense in cibo come snack o merendine o altro, possono essere evitate, perché si mangia per il bisogno naturale di sfamarsi e per il gusto e il piacere della pietanza.
Infine, anche il clima emotivo e familiare ne beneficerà significativamente.
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